Esquisse d’une psychologie du cinéma : la nascita del cinema secondo André Malraux

Nel 1939, alla luce dell’esperienza acquisita durante la realizzazione di Sierra de Teruel, Malraux scrive Esquisse d’une psychologie du cinéma, la più fertile fonte teorica sulle sue idee sul cinema. Il saggio, attualmente inserito nel quarto volume delle opere complete della Pléiade venne pubblicato per la prima volta nel 1946 da Gallimard con una tiratura limitata di mille e duecento copie, in una versione che l’autore aveva rimaneggiato diverse volte dal ’39, anno in cui “les notes”, come Malraux stesso le definisce nella breve epigrafe inserita in occasione della pubblicazione, vennero concepite.

L’epigrafe di Esquisse d’une psychologie du cinéma costituisce tra l’altro uno dei pochi elementi paratestuali di cui Malraux non abusa mai particolarmente nelle sue opere. è possibile riscontrare altri due esempi di inserimento peritestuale con una funzione quasi esclusivamente di presentazione e di indirizzo nel testo di Suzanne Chantal e nella traduzione spagnola della sceneggiatura di Sierra de Teruel di Max Aub. Nella piccola introduzione sotto forma di epistola che lo scrittore compone per Suzanne Chantal e il suo libro Le coeur battant, sulla relazione tra Josette Clotis e Malraux, l’autore tiene a confermare la veridicità dei fatti narrati e i suoi sentimenti di stima, amicizia e gratitudine: “Chère Suzanne, Oui. Vous avez été fidèle. A elle, à nous, à notre passé. Plus que fidèle” [1] , con tanto di autografo e un piccolo schizzo di un gatto che da solo basterebbe a rendere chiari i sentimenti che l’istanza autoriale testimonia per l’autrice della biografia. L’altro esempio di ‘frangia’ del testo, così come la definisce il critico Philippe Lejeune, nel quale Malraux manifesta la propria ‘autorità’, allo scopo, forse, di migliorarne la ricezione e apporre il proprio marchio di credibilità, è la breve autorizzazione del 15 marzo 1967 a fare pubblicare in lingua spagnola la versione dello “script” completo di Sierra de Teruel da Max Aub [2] .

“Ces réflexions nées de l’expérience que j’avais acquise en tournant des morceaux de L’Espoir dont nous avons tenté de faire un film” [3] , scrive il regista Malraux. In realtà nel saggio non c’è nessun riferimento specifico relativo al «tournage» del film Sierra de Teruel, girato in Spagna in piena guerra civile, e la sua riflessione sul cinema si inserisce all’interno di quella vasta “psychologie de l’art” che Malraux aveva intrapreso nel 1935 e che occuperà tutta la sua vita di scrittore. Esquisse d’une psychologie du cinéma era stata pubblicato in prima istanza sull’ottavo numero della lussuosa rivista d’arte Verve stampata nel 1940 e consacrata alla “nature de la France”. L’articolo di Malraux si presentava come una sorta di «intruso» in mezzo ai quadri e disegni che rappresentavano i paesaggi Francesi e ai testi che evocavano scene di vita provinciale e campestre. Nell’epigrafe Malraux afferma, inoltre, che l’edizione Gallimard era stata concepita esclusivamente “à l’intention […] des bibliophiles” che “ont désiré le(s) posséder” e che il saggio “ne sera pas réimprimé”. Nel concreto, però, già durante lo stesso anno, “les notes” vengono inserite nella raccolta antologica Scènes Choisies, all’interno dei tre “études” posti alla fine del volume [4] e nel 1976, anno della morte di Malraux, in occasione del trentesimo anniversario del Festival del cinema di Cannes viene pubblicata una riedizione fuori commercio in cui Malraux, ancora vivo, modificando di poco l’ultima frase dell’epigrafe dell’edizione del 1946, sottolinea che la ristampa è un evento assolutamente eccezionale.

Dopo la morte di Malraux il saggio viene nuovamente pubblicato[5] prima di essere definitivamente inserito nelle Oeuvres complètes della collezione «Bibliothèque de la Pléiade» di Gallimard nel 2004 nell’ambito della riedizione, in un formato più accessibile al grande pubblico, degli écrits sur l’art d’André Malraux. L’edizione Skira degli anni quaranta e quelle di Gallimard degli anni cinquanta e settanta dei volumi de Les voix du silence e de La métamorphose des dieux erano in grande formato e difficilmente accessibili ad un vasto pubblico. A parte l’edizione già citata della Nouvelle Revue Française, nel 1994 “Les rencontres culturelles de la FNAC”, in occasione del quarantasettesimo anniversario del Festival del cinema di Cannes viene infatti pubblicata un’altra edizione fuori commercio, a maggio dello stesso anno il testo integrale viene pubblicato anche dalla rivista letteraria Lire e nel 2003 esce un’edizione tascabile corredata di un saggio introduttivo di Jean-Claude Larrat [6] .

L’edizione completa del saggio presenta diverse varianti rispetto agli articoli precedentemente pubblicati su Verve: seppur lievi, queste differenze danno un’idea del travaglio artistico che mira ad una precisione sempre più meticolosa e, soprattutto, dell’elaborazione, contemporanea al saggio, di quelle che saranno in seguito le idee fondamentali delle due trilogie sull’arte che Malraux pubblicherà nei decenni successivi. Le varianti più significative riguardano lo stile che si fa sempre più incisivo, immediato, più secco, alla ricerca della formula efficace [7] . Il saggio, che riprende la stessa struttura dell’articolo pubblicato sei anni prima, è diviso in sei capitoli, numerati in cifre romane. Seguendo una “démarche comparatiste”, fondata su un’esperienza personale diversificata, Malraux analizza gli apporti che il cinema ha ricevuto dalle altre forme d’arte, stabilendo dei paralleli tra i mezzi del cinema e della pittura (I), della fotografia (II), della radio (III), del teatro (IV) e del romanzo (V). L’ultimo capitolo è consacrato al cinema in quanto tale, al suo grado di evoluzione nel momento in cui le “notes” vengono concepite e al rapporto tra cinema e mito.

Come sottolinea Denis Marion [8] , nel saggio, l’interesse di Malraux non è rivolto alla capacità del cinema di raccontare delle storie, ma piuttosto a ciò che lega l’immagine cinematografica a tutte le arti visive o sonore che l’hanno preceduta e alle possibilità specifiche di espressione che questa nuova arte ha conquistato nel tempo, dopo l’invenzione della fotografia. Anche nei discorsi ministeriali pronunciati in varie occasioni ufficiali, Malraux esprime la sua opinione sull’evoluzione del cinema. L’idea centrale è che “l’art ne consiste pas à représenter la nature, mais à rivaliser avec elle” [9] .

Partendo tra un parallelo tra pittura occidentale e pittura orientale l’autore sottolinea come lo scopo primario dell’arte sia stato, almeno fino al Rinascimento, quello di trovare i mezzi per “représenter les choses”, ma mentre l’arte orientale è rimasta un’arte a due dimensioni, “les recherches de la peinture occidentale tendaient à créer un monde à trois dimensions” [10] , in cui il Cristianesimo ha introdotto la “représentation dramatique”, legata ad un bisogno di “relief, de volume”, un “besoin fanatique de l’Objet”. In netto contrasto con l’arte buddista, l’arte europea ha sostituito "le relief à l’unité du ton, l’histoire aux annales, le drame à la tragédie, le roman au récit, la psychologie à la sagesse, l’acte à la contemplation : l’Homme aux dieux" [11] .

Malraux sottolinea come, per un uomo insensibile alla pittura in quanto opera d’arte, la pittura non è altro che un tentativo continuo di ricreare un universo il più conforme possibile “aux témoignages de ses sens”. Ma, alla fine dell’epoca barocca, la pittura cessa di scoprire dei nuovi modi di «ricreare» la realtà, per diventare tout court “affaire d’artistes”, un modo di rappresentazione del suo mondo interiore ed è proprio grazie a questa “délivrance” dalla rappresentazione che nasce la vera pittura e, per estensione, l’arte.

Malraux identifica, quindi, la “quête délirante” del movimento degli artisti barocchi con la preistoria del cinema, considerandolo come l’apice dell’arte occidentale, il cui obbiettivo è stato sempre di più quello di rispecchiare il concetto di movimento. Secondo l’autore, infatti, “la possession du mouvement” nell’arte non può derivare da una scoperta artistica, ma dalla capacità di cogliere istanti successivi nella stessa rappresentazione da parte dell’artista.

Il cinema, in quanto successione velocissima di piani, di immagini successive, eredita quindi le scoperte della pittura nel campo della rappresentazione per arrivare a rendere conto del movimento soprattutto grazie ai propri mezzi specifici. Malraux stabilisce un legame indissolubile tra la pittura e il cinema, sostenendo che il cinema altro non è il “desiderio di movimento” della fotografia, intesa come evoluzione visiva e tecnologica della pittura stessa.

Quando lo scrittore evidenzia che uno dei poli dell’espressione umana, in contrasto con “le danseur chinois” o “l’acteur grec” è “un visage dont la fugitive expression emplit un écran de cinq mètres” [12] , mette in rilievo proprio la peculiarità del mezzo cinematografico e nello specifico la possibilità di avvicinare e ingrandire le immagini mettendole in primo o primissimo piano.

Allo stesso modo, anche la fotografia, almeno nello stadio iniziale, nasce come un mezzo di riproduzione della realtà e diventa arte solo nel momento in cui, usando i propri strumenti specifici, riesce a cogliere della realtà dei momenti precisi, «choisis», che esprimono lo stile personale dell’artista, “son univers singulier”. Anche il cinema muto, "bien qu’il permît de photographier le mouvement, ne faisait que substituer une gesticulation mobile à une gesticulation immobile" [13] . Per arrivare al un cinema come mezzo di espressione e non di rappresentazione, era necessario che l’obiettivo fosse indipendente dalla scena da rappresentare.

Dans un espace circonscrit, généralement une scène de théâtre véritable ou imaginaire, des acteurs évoluaient, représentaient une pièce ou une farce que l’appareil se bornait à enregistrer. La naissance du cinéma en tant que moyen d’expression (et non de reproduction) date de la destruction de cet espace circonscrit; de l’époque où le découper imagina la division de son récit en plans, envisagea, au lieu de photographier une pièce de théâtre, d’enregistrer une succession d’instants, d’approcher son appareil (donc de faire grandir les personnages dans l’écran quand c’était nécessaire), de le reculer; surtout de substituer au plateau du théâtre le « champ », l’espace qui sera limité par l’écran – là où l’acteur entre, d’où il sort, et que le metteur en scène choisit, au lieu d’en être prisonnier. Le moyen de reproduction du cinéma était la photo qui bougeait, mais son moyen d’expression, c’est la succession des plans [14] .

Ciò diventò possibile, quindi, solo grazie all’invenzione del découpage e del “gros plan” che lo scrittore ascrive ad uno dei pionieri del cinema, David Griffith [15] che, per primo, affermò la specificità dell’arte cinematografica rispetto al teatro per ciò che riguarda la scelta dei temi, la direzione degli attori e, in particolare, alcuni procedimenti che divennero degli elementi espressivi di alto valore estetico, tra cui, per esempio, il flashback, la codifica del linguaggio cinematografico e il montaggio analitico delle scene. Il cinema, attraverso il montaggio, si trasforma dunque da semplice mezzo per registrare l'attualità in un mezzo estetico di grande sensibilità.

Se il cinema ha corso il rischio di essere “une sorte d’art-poubelle, récuperant ce dont la peinture et le théâtre modernes ont appris à se délivrer: le drame et son pathos sentimental, démonstratif et émouvant” [16] , nel momento in cui il regista e l’operatore conquistano l’indipendenza dalla fascinazione della scena teatrale e spettacolare, esso diventa un’arte e put chercher la succession d’images significatives” [17] per costituire il suo “discours spécifique”.

La conquista di un linguaggio e di un discorso proprio del cinema rappresenta per Malraux il momento decisivo poiché questa acquisizione segna il passaggio dalla «rappresentazione», intesa come «mimesis» aristotelica che consiste nello scegliere dal caos informe della vita degli istanti privilegiati, mettendoli in ordine secondo un «possibile» e un «verosimile» apparentemente universali, “donnés une fois pour toutes”, ma che in realtà sono solo le convenzioni di una società particolare, all’espressione che comincia nel momento in cui, appropriandosi delle possibilità tecniche della sua arte, riesce a suggerire, contro le convenzioni, “des rapports inconnus et soudains convaincants entre le êtres, ou entre les êtres et les choses” [18] .

Ad Aristotele, Malraux preferisce Nietzsche che vedeva nello sforzo di ogni grande artista la volontà di instaurare un nuovo rapporto con il mondo ed è proprio grazie al ‘montaggio’ che il cinema può realizzare questa “métamorphose du regard”.

Malraux applica la stessa teoria concepita per il cinema muto dei primi anni al cinema sonoro, esplicitando lo stesso procedimento tramite la comparazione con la radio: se ciò che la radio registra e manda in onda per rendere conto di un evento non è una semplice registrazione dei fatti così come essi sono avvenuti, una semplice “sténographie”, ma la scelta accurata di certi istanti significativi selezionati grazie ad un montaggio, allo stesso modo “Le cinéma moderne est né, non pas de la possibilité de faire entendre des paroles lorsque parlaient les personnages du muet, mais des possibilités d’expression conjuguées de l’image et du son" [19] .

Dal caos, dalla vita stessa che è dalla materia prima di ogni arte, il cinema, sia esso muto o sonoro, sceglie un istante suggestivo, significativo, «artistico», determinato precisamente dal mezzo adottato per “exprimer ce chaos”.

Queste idee sulla scelta degli istanti significativi e l’organizzazione delle scene rientrano all’interno del dibattito letterario degli intellettuali dell’Associazione degli scrittori e artisti rivoluzionari (A.E.A.R.) a cui Malraux prende parte attiva durante il primo dopoguerra. L’accesa discussione sulle nuove possibilità di espressione del romanzo coinvolgeva direttamente lo scrittore in quanto alcuni critici avevano accostato uno dei sui ultimi romanzi, Les Conquérants ai film rivoluzionari sovietici che vedevano in entrambi lo stesso stile ellittico e una ricerca inquieta “d’un autre genre de création”. In Panorama de la littérature russe contemporaine [20] , il critico letterario russo Vladimir Pozner aveva impiegato la formula “littérature de montage” per designare un nuovo tipo di scrittura che rompeva la logica del discorso e l’ordine tradizionale del racconto borghese, sottolineando che gli scrittori russi procedono esattamente come un regista cinematografico che “colle les bouts de pellicule les uns aux autres”. Anche Malraux, accusato di avere uno stile “heurté, elliptique et quelque fois obscur”, adotta questo tipo di scrittura che obbliga il lettore, così come i film russi, a dare un senso ad ogni frammento di vita “disjoints et servis à l’état brut”.

Nel 1934 lo scrittore aveva, infatti, pubblicato un articolo sulla Nouvelle Revue Française in cui elogiava la cosiddetta “littérature de montage” che privilegia le scene al racconto, giocando sulla discontinuità narrativa e la varietà dei raccordi.

Toute une littérature se constitue actuellement en Europe, de livres dont la valeur n’est plus dans ce que l’auteur ajoute d’expérience, de subtilité ou de qualité à un récit, mais uniquement dans le choix des événements qu’il rapporte. En termes de cinéma, je dirais qu’à coté d’une littérature de photographies commence à se constituer une littérature de montage [21] .

E l’anno successivo nella sua prefazione a Indochine S.O.S. di André Viollis aveva opposto alla “vieillerie poétique” della metafora, la figura dell’ellissi propria di una letteratura moderna che cerca nel linguaggio cinematografico e giornalistico i suoi modelli, intendendo per “ellissi” il procedimento cinematografico del crossing up, cioè l’incrocio di due o più temi o storie che si svolgono sia in luoghi diversi ma contemporaneamente che in epoche lontane tra loro.

Un reporter, dans un art dont la métaphore est l’expression essentielle, ne peut être que manœuvre ; le poète, le romancier seront toujours plus grands que lui. Si l’objet de l’art est de détruire le fait, le reporter est battu ; mais si cet objet peut être le rapprochement elliptique, non de deux mots, mais de deux faits, cinéaste et reporter retrouveront leur force, et c’est la même [22]

In un suo articolo su Les Nourritures terrestres dello stesso anno, anche André Gide accorda la stessa importanza alla figura dell’ellissi: “Le système métaphorique constitué dans les Nourritures Terrestres par le adjectifs, s’établit cette fois plus sourdement par le rapprochement des faits. Ce n’est pas ici le lieu de développer l’idée, à laquelle je tiens, que tout art repose sur un système d’ellipses. Mais du moins voit-on la force et la nature de celle-ci ; l’action la plus pressante de ce livre est dans ses blancs, dans le domaine suggéré où se rejoignent le sens des Rencontres et le pages d’affirmation" [23] .

Alla fine del terzo capitolo Malraux introduce delle importanti riflessioni sul cinema, riprendendo un famoso saggio del 1935 di Walter Benjamin [24] che sicuramente aveva letto e al quale aveva testimoniato personalmente la condivisione teorica L’Œuvre d’art à l’époque de sa reproductibilité technique. [25] .

Au XX siècle, pour la première fois, se sont créés des arts inséparables d’un moyen technique d’expression; non seulement susceptibles de reproduction, mais expressément destinés à la reproduction. […] L’infime instant qui permet de tourner un plan de cinéma, avec ses acteurs vivants, est fait pour la photographie qui en sera prise, et pour cela seulement, de même qu’une pièce radiophonique n’est faite que pour être enregistré#233; sur un disque, puis transmise au micro [26] .

Secondo Benjamin, infatti, prodotto di uomini per altri uomini, l'arte va studiata "materialisticamente" sia nei suoi modi di elaborazione e di rappresentazione anche tecnica, non esclusi quelli fotografici e cinematografici, sia nelle particolari modalità percettive del suo fruitore. L’opera d’arte, oggetto unico a carattere magico o sacro, perde la sua “aura”, cioé l'alone ideale che rende sensibile al fruitore l'unicità irripetibile dell'atto creativo, man mano che diventa «trasportabile» e, soprattutto, riproducibile, acquisendo in “valeur d’exposition” ciò che perde in “valeur rituelle”. L’ultimo stadio di desacralizzazione viene raggiunto nel momento in cui le opere vengono create non per restare originali e uniche ma proprio per essere riprodotte. Nella società di massa, in cui regna la riproducibilità dell'opera d'arte, l'opera d'arte può introdurre la riproduzione dell'originale in situazioni che all'originale stesso non sono accessibili [27] . La riproducibilità tecnica segna il trionfo della copia e del "sempre uguale", ma in ciò, secondo Benjamin, si annida un potenziale rivoluzionario, perché apre alle masse, soprattutto nelle forme del cinema e della fotografia, l'accesso all'arte e alle sue capacità di contestazione dell'ordine esistente, ormai diventato inumano.

Questa idea sull’importanza della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte per la diffusione massificata dell’arte viene più volte ripresa da Malraux nei discorsi degli anni trenta: nel suo discorso Sur l’héritage culturel pronunciato a Londra il 21 giugno 1936 al segretariato generale dell’Association des écrivains pour la défense de la culture, lo scrittore sottolinea che

[…] l’art des masses est toujours un art de vérité. Peu à peu, les masses ont cessé d’aller à l’art, de le rencontrer au flanc des cathédrales ; mais aujourd’hui, il se trouve que, si les masses ne vont pas à l’art, la fatalité des techniques fait que l’art va aux masses.
Cela est vrai des pays démocratiques comme des pays fascistes ou communistes, quoique pas de la même façon. Depuis trente ans chaque art a inventé son imprimerie : radio, cinéma, photographie. Le destin de l’art va du chef-d’œuvre unique, irremplaçable, souillé par sa reproduction, non seulement au chef d’œuvre reproduit, mais à l’œuvre faite pour sa reproduction à tel point que son original n’existe plus: le film. Et c’est le film qui rencontre la totalité d’une civilisation, comique avec Chaplin dans le pays capitalistes, guerrier bientôt dans le pays fascistes [28] .

Non è realistico, quindi, pensare, così come afferma Goffredo Fofi nella prefazione della traduzione italiana di Esquisse d’une psychologie du cinéma [29] che Malraux non si rendesse conto del potere mediatico che da lì a poco avrebbe avuto il cinema nel controllo delle masse da parte dei regimi totalitari. Anzi, consapevole di questo potere enorme sulle masse del cinema che attraverso la catalizzazione delle attività di «divertissement», cerca proprio di sfruttarlo come mezzo di propaganda in aiuto della Repubblica spagnola con il suo film.

Nel quarto capitolo Malraux spiega le differenze sostanziali tra cinema e teatro e ciò che fa di un film qualcosa di diverso rispetto a una sorta di «teatro fotografato». L’idea centrale è che in teatro gli effetti e i segni devono essere smisuratamente accentuati o ingranditi per poter essere percepiti dal pubblico piazzato lontano dagli attori, mentre, al cinema, i gesti più infimi, le più fugaci espressioni del viso, l’intensità delle voci, non hanno bisogno di essere modificati rispetto al modo in cui si presentano nella vita reale: i primi piani, o l’equivalente sonoro, li mostrano senza per questo deformarli.

Un acteur de théâtre, c’est une petite tête dans une grande salle ; un acteur de cinéma, une grande tête dans une petite salle. Avantage infini: tels instants que le théâtre ne put jamais exprimer que par le silence, l’écran muet les avait déjà emplis de l’infinie diversité du visage humain. […] Et la dimension des personnages sur l’écran permettait à l’acteur d’échapper à l’inévitable gesticulation, à tout ce que le jeu du théâtre, pour être perçu, doit conserver de symbolique [30] .

Come sottolinea Jean Claude Larrat, Malraux abborda timidamente il campo della semiologia, in seguito esplorato con grande successo da Roland Barthes in Littératue et signification, per esempio, in cui mette in evidenza come la scena teatrale sia satura di segni e di messaggi indirizzati allo spettatore.

Qu’est-ce que le théâtre? Un espèce de machine cybernétique [qui, dès qu’on lève le rideau] se met à envoyer à votre adresse un certain nombre de messages. […]en tel point du spectacle, vous recevez en même temps six ou sept informations (venues du décor, du costume, de l’éclairage, de la place des acteurs, de leurs gestes, de leur mimique, de leur parole), […] on a donc affaire à une véritable polyphonie informationnelle, et c’est cela la théâtralité : une épaisseur de signes…[31]

Al cinema, questa “épaisseur de signes” sparisce: l’attenzione dello spettatore viene richiamata su un gesto o un oggetto, attraverso un primo piano o un’inquadratura prolungata, che assumono così una valenza ‘significativa’, ma non esiste più un codice di decodificazione in quanto questi gesti “sont donnés comme s’ils étaient à l’état brut, naturels, non encodés, comme dans la vie” [32] . Il cinema crea nello spettatore uno stato di fascinazione di fronte a qualcosa di “significatif” privo di “signification déchiffrable”, mostrando la vita senza spiegarla, ma senza tuttavia lasciarla nel caos. Da qui l’errore denunciato da Malraux: creare un film come se si filmasse una pièce teatrale significa appunto ignorare la differenza fondamentale tra il cinema teatro che risiede nel modo diametralmente opposto di trattare i segni.

D’altra parte, Malraux sottolinea come il teatro degli anni venti, quello di Meyerhold per esempio, “appelait le cinéma”, cercando di creare un’atmosfera ricorrendo a delle tecniche particolari, le luci, la musica, la scenografia in grado di “suggérer un monde autour du […] discours”.

Nelle ultime righe del IV capitolo Malraux afferma che, dato che “le parlant […] met la continuité du récit au premier plan de ses moyens d’action", il suo vero "rival n’est pas le théâtre, mais le roman" [33] . Lo scrittore passa allora in rassegna alcuni dei mezzi espressivi propri al romanzo e al cinema, con una particolare attenzione alla «mise en scène», ai dialoghi e al procedimento ellittico, citando alcuni romanzieri del XIX e del XX secolo [34] .

Secondo Malraux, il cinema deve resistere alla tentazione di raccontare usando gli stessi mezzi di cui dispone il romanzo: privilegiare le "scene" rispetto al “récit”, facendo in modo che esse diventino un vero “facteur de discontinuité” all’interno della narrazione. Queste scene “extraient de l’histoire racontée la conscience d’un personnage, pour la mettre au contact direct d’un monde demeuré illisible, inhumain – le monde, ni plus, ni moins, en tant qu’il résiste à la mise en récit" [35] , diventando, proprio perché spezzano la continuità narrativa, dei mezzi di «espressione», mentre il "récit"rimane un mezzo, convenzionale, di «rappresentazione».

Certo Malraux si rende conto della difficoltà del cinema di rinunciare alla tentazione di raccontare delle storie: il famosissimo excipit del saggio rappresenta proprio la sua consapevolezza sul rischio che il cinema corre di rinunciare alla sua ‘libertà’ in quanto arte e di sottomettersi alle leggi di mercato e alle masse: “Par ailleurs, le cinéma est une industrie” [36] .

Nell’ultimo capitolo Malraux si interroga allora sulla grande potenzialità dell’arte cinematografica come creatrice di miti, un “domaine”, sottolinea l’autore, “d’où l’art ne peut rester à jamais absent” perché il cinema “s’adresse aux masses, et les masses aiment le mythe, en bien et en mal” [37] . In questo contesto Malraux riprende la teoria del « mythe mobilisateur » enunciata da Georges Sorel all’inizio del 1900, secondo il quale le masse si sollevano non perché credono nella bontà degli argomenti intellettuali e filosofici che stanno alla basse della loro rivolta, ma perché sono trascinate dalle immagini di un mito collettivo di cui sognano di essere le protagoniste. Anche in Sierra de Teruel Malraux gioca proprio su questa potenzialità del cinema come generatore di miti in grado di «mobilitare» le folle, costruendo il mito della “fratellanza” tra i popoli, i protagonisti del film sono infatti i membri dell’aviazione internazionale appartenenti a paesi diversi ma arrivati in Spagna per combattere un nemico comune, l’immagine epica dell’eroe collettivo che lotta per la salvezza dei poveri e degli oppressi contro il prevaricatore fascista.

Tra i miti moderni Malraux annovera la giustizia “sous sa forme individuelle ou collective”, l’avventura e la sessualità che "sont loin d’avoir épuisé leur puissance". Qualcuno dei grandi successi del cinema deriva proprio dalla riattualizzazione di miti antichi, spesso veicolati da un attore principale, una star, che “domine tout”.

Une star n’est en aucune façon une actrice qui fait du cinéma. C’est une personne capable d’un minimum de talent dramatique dont le visage exprime, symbolise, incarne un instinct collectif […] les stars connaissent obscurément les mythes qu’ils ou elles incarnent, et exigent des scénarios capables de les continuer [38] .

Tra tante stars dell’epoca che Malraux cita, la Garbo, Marlène, Gabin, una sembra assumere un’importanza maggiore rispetto alle altre: Charlot. In una lettera del 5 aprile 1971 indirizzata a Franz Joseph Albersmeier, Malraux scriverà : “Mon intérêt pour le cinéma a commencé par Charlot […]” [39] .

J’ai vu en Perse un film qui n’existe pas et qui s’appelait La vie de Charlot. Les cinémas persans sont en plein air; sur les murs qui entouraient les spectateurs, des chats noirs, assis, regardaient. Les exploitants arméniens avaient fait un montage de tous les petits Charlots, astucieusement, et le résultat, un très long métrage, était surprenant: le mythe apparaissait à l’état pur [40].

Come spiega chiaramente Emmanuel Siety in un suo saggio su Espoir-Sierra de Teruel la figura mitica di Charlot appare agli occhi dell’autore del Musée Imaginaire grazie alla capacità del cinema di astrarsi dal “récit” come rappresentazione e fare emergere delle figure identificabili al mito. Secondo il critico bisognerebbe immaginare che "de fragment en fragment, tandis que chaque récit à peine amorcé s’oublie pour un autre aussi vite abandonné, la figure de Charlot franchit chaque raccord d’un petit bond, se rétablissant gracieusement au bord du vide comme on le voit faire dans ses films" [41] . Come se "cette valse de récits finit par les abolir tous par l’effet d’une force centrifuge, de telle sorte que le danseur resté seul en piste, dénudé de la relativité de tout récit singulier, peut laisser paraître sa valeur absolue et affirmer sa qualité mythique" [42] .

Il saggio si chiude su un’interrogazione retorica sul valore del cinema in quanto arte in rapporto alla ricezione della massa, nella quale è evidente l’allusione all’idea del gesto creativo come portatore di valori umanistici e universali: "Les foules sont loin de préférer toujours ce qu’il y a de meilleur en elles ; pourtant elles les reconnaissent souvent. Qu’entendaient celles qui écoutaient prêcher saint Bernard ? Autre chose que celle qu’il disait ? Peut-être; sans doute. Mais comment négliger ce qu’elles comprenaient à l’instant où cette voix inconnue s’enfonçait au plus profond de leur cœur ?" [43] .

In netto contrasto con l’idea suggerita si pone l’excipit finale, staccato dal resto del saggio, la formula già citata prima sul cinema visto come un’industria: "Par ailleurs, le cinéma est une industrie", in cui questo «par ailleurs» si apre come una sfida, una provocazione, un’apertura verso il futuro del cinema stesso come prodotto sottomesso alle leggi del mercato, ma reintegrato, grazie alle argomentazioni portate avanti in tutto il saggio, nell’ “echélle des arts”.

Note

[1] Suzanne Chantal, Le cœur battant. Josette Clotis, André Malraux, Paris, Grasset, 1976, pp. 9-10. Ritornare

[2] Cfr., André Malraux, Sierra de Teruel, Traducción y prologo de Max Aub, Mexico, Ediciones Era, 1968, p. 3. Ritornare

[3] André Malraux, Esquisse d’une psychologie du cinéma, in Œuvres complètes, vol. IV, Paris, collection «Bibliothèque de la Pléiade», Gallimard, 2004, p. 3. Ritornare

[4] Cfr. André Malraux, Scènes Choisies, Paris, Gallimard, 1946. Ritornare

[5] Cfr. la riedizione del saggio in la “Nouvelle Revue Française”, numero speciale “Cinéma”, n. 520, mai 1996, p. 6. Ritornare

[6] Cfr. Introuvable. Malraux et le cinéma, « Lire », mai 1994, pp. 38-43 e André Malraux, Esquisse d’une psychologie du cinéma, Paris, Nouveau Monde Editions, 2003. Ritornare

[7] Cfr. Christiane Moatti, Notes sur le texte in André Malraux, Œuvres complètes, vol. IV, Paris, collection «Bibliothèque de la Pléiade», Gallimard, 2004, pp. 1257-1259. Ritornare

[8] Cfr. Denis Marion, Le cinéma selon André Malraux : textes et propos d’André Malraux, points de vue critiques et témoignages, Paris, Petite Bibliothèque des Cahiers du cinéma, 1996, p. 26. Ritornare

[9] Marion, 1996, p. 26. Ritornare

[10] Malraux, 2004, p. 5. Ritornare

[11] Ivi, p. 6. Ritornare

[12] Ibidem. Ritornare

[13] Ivi, p. 7. Ritornare

[14] Ivi, p. 8. Ritornare

[15] David Wark Griffith, attore, scenografo e regista, seguendo la strada intrapresa da Porter e da altri pionieri, intuì che in una sequenza le singole inquadrature dovevano essere montate tra loro in base ad esigenze di necessità drammatica. Fin dagli inizi della carriera Griffith si rese conto che riprendere un'intera scena a distanza fissa imponeva grossi limiti alla narrazione. Volendo mostrare allo spettatore il pensiero o le emozioni di un personaggio, capì che il modo migliore per farlo, era quello di avvicinare la macchina da presa, registrando così con più precisione l'espressione del viso. Per la prima volta impiegò, quindi, il primo piano, considerato per l'epoca un'audace novità, il flashback, con cui fu possibile rompere la linearità del tempo filmico proiettando alcune scene cronologicamente antecedenti e il montaggio alternato. La scoperta fondamentale di Griffith fu quella di rendersi conto che una sequenza deve essere composta da singole inquadrature incomplete, scelte ed ordinate in base a motivi di necessità drammatica. Ritornare

[16] Jean-Claude Larrat, Genèse et destinée du texte, in André Malraux, Esquisse d’une psychologie du cinéma, Paris, Nouveau Monde Editions, 2003, p. 19. Ritornare

[17] Malraux, 2004, p. 9. Ritornare

[18] Ivi, p. 14. Ritornare

[19] Ivi, p. 9. Ritornare

[20] Cfr. Vladimir Pozner, Panorama de la littérature russe contemporaine, Paris, Kra, 1929. Ritornare

[21] André Malraux, Les Traqués par Michel Matveev, in « Nouvelle Revue Française », n. 249, juin 1934, p. 1014. Ritornare

[22] André Malraux, Préface di Andrée Viollis , Indochine S.O.S., Paris, Gallimard, 1935, pp. VII-VIII. Ritornare

[23] André Gide, Les Nouvelles Nourritures, in “Nouvelle Revue Française”, vol. XXIII, n. 267, 1 déc. 1935, pp. 936-937. Ritornare

[24] Nato a Berlino nel 1892 da una famiglia alto-borghese di origine ebraica, Walter Benjamin scrive numerosi saggi di carattere storico e filosofico, raccolte di aforismi e traduce Baudelaire in tedesco. Compie svariati viaggi in Svizzera, a Mosca, Parigi, durante i quali conosce Theodor Adorno e Bertorl Brecht che negli anni trenta, dopo l’avvento del Terzo Reich, lo ospita a più riprese nella sua casa in Danimarca. Il 1933 segna infatti la definitiva separazione dalla Germania. Esule a Parigi, il suo unico mezzo di sussistenza rimane l’assegno della rivista "Zeitschrift für Sozialforschung" di Adorno e Horkheimer sul quale pubblica nel 1936 L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica. Nel 1938-39 mentre lavora su Baudelaire, viene internato nel campo di prigionia di Nevers; in quanto cittadino tedesco, viene rilasciato tre mesi dopo. Dopo aver cercato di ottenere un visto per gli Stati Uniti, nel settembre del 1940 viene bloccato alla frontiera spagnola dalla polizia: nella notte tra il 26 e il 27 si toglie la vita ingerendo una forte dose di morfina. Ai suoi compagni di viaggio fu concesso di passare il confine il giorno seguente. Ritornare

[25] Cfr. Walter Benjamin, L’Œuvre d’art à l’époque de sa reproductibilité technique, in Walter Benjamin, Œuvres, III, Gallimard, 2000, pp. 67-113. Ritornare

[26] André Malraux, 2004, p. 10. Ritornare

[27] La cattedrale abbandona la sua ubicazione per essere accolta nello studio di un amatore d'arte; il coro che è stato eseguito in un auditorio oppure all'aria aperta può venir ascoltato in una camera. Ciò che viene meno è solo quanto può essere riassunto con la nozione di 'aura'. Ritornare

[28] André Malraux, Sur l’héritage culturel, in André Malraux, La Politique, la culture. Discours, articles, entretiens (1925-1975), réunis et présentés par Janine Mossuz Lavau, Paris, Gallimard, 1996, p. 135. Ritornare

[29] Cfr. Goffredo Fofi, Prefazione, in André Malraux, Sul cinema: appunti per una psicologia, Medusa, Milano, 2002, pp. 7-15. Nel saggio introduttivo Fofi sostiene che Malraux arrivi alla conclusione che “il cinema è romanzo, il cinema è mito” in maniera “acritica” e “con una sommaria e splendidissima libertà; ma senza saper prevedere che cosa avrebbe significato la congiunzione di mito e romanzo nel sistema produttivo e divistico di tipo anzitutto hollywoodiano, senza voler rendersi conto a sufficienza della congiunzione che si andava realizzando tra progetto narrativo e progetto politico”. (Goffredo Fofi, Prefazione, op. cit. p. 14) Ritornare

[30] Malraux, 2004, p. 11. Ritornare

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[31] Roland Barthes, Littérature et signification, in Essais Critiques, Paris, Seuil, « Tel Quel », 1964, p. 258. Ritornare

[32] Larrat, 2003, p. 30. Ritornare

[33] Malraux, 2004, p. 12. Ritornare

[34] Come Henry James che aveva rinunciato all’artificio del narratore onnisciente, utilizzando invece una ‘presentazione diretta’ in cui gli avvenimenti sembrano svolgersi sotto gli occhi del lettore, o indiretta, in cui vengono raccontati da un narratore interno al ‘récit’. Ritornare

[35] Larrat, 2003, p. 22 Ritornare

[36] Malraux, 2004, p. 16. Ritornare

[37] Ivi, pp. 15-16. Ritornare

[38] Ivi, pp. 14-15. Ritornare

[39] Lettera citata da Christiane Moatti nelle note all’edizione in Pléiade di Esquisse d’une psychologie du cinéma. Cfr. André Malraux, Oeuvres complètes, op. cit., p. 1263. Ritornare

[40] Malraux, 2004, p. 15 Ritornare

[41] Emmanuel Siety, Sierra de Teruel (Espoir) d’André Malraux. L’ironie des constellations, in « Cinéma », n. 9, printemps 2005, p. 152. Ritornare

[42] ibidem. Ritornare

[43] Malraux, 2004, p. 16. Ritornare

Bibliografia

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SIETY, Emmanuel. «Sierra de Teruel (Espoir) d’André Malraux. L’ironie des constellations», in Cinéma, n. 9, printemps 2005.


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